27. Fisarmoniche d’acciaio

Fisarmoniche d’acciaio



Siede sulla strada un bambino. La strada e quel bambino, buio oltre lo sguardo. I suoi occhi cercano una culla nel cemento sporco, una ferita della strada che possa ospitare il suo piccolo corpo. Sembra quasi una sfera, un corpo chiuso in se stesso – chiuso a chiave dall’interno – privo di qualsiasi colpa. Essenzialmente: puro. E’ nato ed è cresciuto lì, probabilmente. Ogni marciapiede ha lo stesso odore e le case circostanti tagliano il cielo in uno stretto rettangolo azzurro privo di nuvole, sempre uguale. Con le mani sotto i piedi per proteggersi dal freddo dell’asfalto, un bambino sulla strada osserva il mondo dai suoi grandi occhi blu, e ciò che riesce a guardare sono solo piedi. Piedi veloci, scarpe lussuose, stivali placcati, sandali scuciti. Lui "ai suoi piedi" ha solo le sue mani.

Seduto, osserva.

Piedi veloci.

 “Perché dovrei avere delle scarpe se ho le mie mani che mi proteggono?”

E se ne sta lì, ad osservare il mondo. Alla ricerca del luogo esatto in cui riposare.

Non ha niente con sé, il bambino non possiede nulla. Gli sta accanto una grande fisarmonica. Una grande fisarmonica d’acciaio.

“Che ci farà? Forse non sarà sua!” – dicono i passanti più curiosi. Altri neanche si accorgono di lui; alcuni si affollano per scrutare nei minimi dettagli l’atipico strumento musicale.

“Sembra che non si possano premere i tasti.”

“Lui è così piccolo e quell’aggeggio così grande!Non può suonarla!”

“Hanna, sei la solita sciocca. E’ una fisarmonica, ma è fatta d’acciaio. Anche se fosse piccola come una forma di pane, non si potrebbe. Il mantice non produrrebbe alcun suono.”

Il bambino canta nella sua testa una canzone che non ha mai ascoltato. E’ nata in un istante e sembra essere sottofondo instancabile per i suoi pensieri. E’ una musica allegra, una melodia che si fonde con colori vivaci, colori che non ha mai visto perché non ha mai visto la luce, ma solo: ombre. Si mescolano e si sgretolano macchie vive di forme senza tempo, riscaldano il cervello come un vento dell’est. Riscaldano i pensieri.

“Tutti vengono a vedere le mie scarpe. Sono invidiosi: loro ne hanno di così brutte! Sono fredde, morte, scure. Le mie mani sono bianche come lo zucchero filato e veloci come farfalle. Sono mie, mi apparterranno per sempre. Loro invece le buttano e ne comprano di altre. Povere scarpe.”

“E’ così piccolo! Non ha un letto dove dormire!”

Non si cura delle voci che avvolgono la strada stretta in cui si trova. Il bambino si alza e corre a nascondersi. Dietro la fisarmonica.

“Si è mosso!”

“Non ha le scarpe!”

“Andiamo, Elizabeth.”

Dietro la sua fisarmonica d’acciaio il bambino si sente al sicuro. Forse perché considera quel grande marchingegno il suo rifugio. Ci è vissuto da sempre, ma è un sempre breve e intenso, appena accennato. Come strisciare un pennello sulla superficie ruvida di una tela grezza; stride ad ogni imperfezione.

“Mi ha detto di aspettare qui, ed io aspetterò.”

In realtà quella non è una fisarmonica, e quel bambino non è propriamente un bambino. Ha vissuto pochi anni ma conserva in sé dolori che molti uomini non hanno neanche lontanamente guardato.
Inizia a piovere. Da quello stretto squarcio di cielo, innumerevoli gocce feriscono la terra, all’improvviso. Il bambino corre a ripararsi dentro, dentro la fisarmonica. La sua casa.

 Per gli uomini la realtà è una disegno sempre uguale, che si ripete fisso. Come le guglie di una chiesa, o la forma sempre uguale della luna. Per gli uomini quell’ingranaggio meccanico è un disegno uguale a tanti altri nella loro mente: una fisarmonica, non una casa.
 E vedono, in quel bambino già affrescato nei loro pensieri, un mendicante e non un'anima. La verità sta nei silenzi.


Gli ombrelli si riparano nelle case, spariscono dietro i grandi portoni di legno dei palazzi scuri. Non c’è più nessuno per strada, se non una fisarmonica d’acciaio. Una casa. All’interno, il bambino chiude gli occhi. Sogna di essere in una grande stanza senza angoli né mobili, semplicemente libera da qualsiasi parallelepipedo ingombrante e specchi di legno. Libera e silenziosa. Intanto fuori piove, il bambino ha i piedi bagnati, ma immagina sia il mare che gli fa visita oltre la spiaggia; e lui sorride, con i piedi tra le onde, e sorride perché non si sente solo, e sorride perché è il cielo a piangere. Lui ora non può. Sorride.

Non è né una fisarmonica d’acciaio, né una casa. E’ una grande ruota, un ingranaggio.

Il bambino attenderà.

- Oscar…papà ti lascia qui per un po’. Ritornerò a prenderti.

- Quando?

- Non appena torniamo dalla missione. Intanto aspettami qui. La mamma ti guarderà da lassù.

- Ho freddo…

- Ecco perché sono riuscito a portare qui la ruota di scorta del carro bellico più grande che abbiamo. L’ho tinta un po’, nessuno la riconoscerà.

- Ho fame…

- Dentro c’è del cibo. E’ una piccola casa. Io non posso più scappare. Tu rimani qui. Ogni giorno verrà a darti del cibo il droghiere dell’angolo della strada. Devo andare. Su, su. Dentro.

- A presto papà.

- A presto, Oscar.

Fece qualche passo.

- Ho freddo ai piedi, papà!

L’uomo si avvicina e soffia nelle sue mani, poi in quelle di Oscar.

- Mettile ai piedi, ti riscalderanno.

- Ti aspetto, papà. Fin quando arriverai.

Fin quando arriverà.
Intanto la pioggia è finita, e la gente si riversa sulle strade. Gli ombrelli sono rimasti dentro, stesi al caldo dei camini, arrossiscono al tepore del focolare. Sciarpe di seta e sciarpe di lana colorano i cappotti scuri dei più anziani; i ragazzini invece sfrecciano su biciclette veloci.

Oscar tiene fra i denti un pezzo di pane, esce dalla fisarmonica. Osserva il mondo nuovo, dopo la pioggia. Ogni cosa ora è più lucida, come se il grande pennello di Dio abbia acquerellato le nuvole, i tetti delle case, l’asfalto.

“E’ finita! E’ finita!” Una donna vestita di bianco diffonde la sua voce nelle strade.

Scioglie l’attesa della gente chiusa nelle stanze buie con i rosari in mano.

Scioglie l’atmosfera grigia che avvolge le speranze delle traiettorie future; si sfioreranno all’infinito.

Scioglie le dita incrociate dei bambini che pregano per il ritorno dei loro padri dalla guerra.

Scioglie le mani di Oscar, le sue paure e le sue lacrime mute. Aspetterà suo padre,

Finché arriverà.

2 commenti:

  1. Hai un modo tutto tuo di vedere le cose e vivere le emozioni e non è questione di relativismo, è questione di unicità.
    Un lavoro concluso è un lavoro ben fatto!!

    miri

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  2. Ciao ti riscrivo perché ho trovato qualcos'altro che ti appartiene.
    http://ossauniverumnblogs.blogspot.com/2010/10/cream-vintage-sequin-sweater.html

    Buona giornata e a presto.
    Andrea

    Ps. Sei davvero un'ottima penna!

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