Al
mattino ci svegliamo e siamo già stanchi. Lasciamo che la maglietta e il
pantalone della tuta che portiamo come pigiama ci cada ai piedi, e non li
raccogliamo. Lo faremo, poi. Il nostro compagno – marito o moglie, che sia - si
è già svegliato prima di noi, è corso a lavoro quando il giorno e la notte si
mescolano nel cielo, ed è tutto ancora immobile e grigio. Oppure si sveglia con
noi, ma ha troppa fretta per guardarci. Svegliamo i nostri figli con frasi
distratte ma dolci, quelle che chiameranno, da adulti, materne. Li aiutiamo a lavarsi e vestirsi; siamo semplici automi
sotto i loro comandi, ma gli impediamo di prendere decisioni: abbiamo scelto
persino le mutande che devono indossare, anche senza guardare, con gli occhi
delle mani che frugano nei cassetti. Si addormentano sul bidet mentre pensiamo
ai loro fratelli, e sorridiamo perché nei loro gesti sembrano essere noi,
quando ancora del mondo non ci importava niente, solo che giocassimo abbastanza.
Loro sono vestiti per bene, per non sfigurare con le famiglie dei più ricchi, a
scuola, perché su di loro non ricada l’oltraggio del classismo – è una febbre
che ci muove dal di dentro, ma non ne parleremo mai – mentre noi indossiamo
sempre le stesse cose, finite in lavatrice tante volte, per farle sembrare nuove,
invece appaiono appassite. La colazione c'è, ma sempre in fretta, in piedi, una
tazza di caffè e qualche biscotto spulciato ai nostri figli, forse troppo
morbido, che il giorno prima non abbiamo chiuso bene il pacco con lo scotch.
Davanti
allo specchio ci guardiamo poco, alla penombra della luce delle altre stanze.
Al
lavoro ci andiamo in macchina, con i colleghi, per risparmiare benzina, che è
davvero tanto cara. Oppure prendiamo i mezzi pubblici, e ci ritroviamo
ingorgati, dopo la lenta notte di poco sonno alle nostre spalle, nel pieno caos
cittadino. Condividiamo il posto con gente di tutti i tipi: immigrati,
extra-comunitari, orientali con le borse laccate. Sembriamo diversi eppure
siamo sullo stesso tram – e siamo simili.
A
lavoro abbiamo spesso i capelli legati, se siamo donne, o le maniche alzate, se
siamo uomini. Facciamo lavori che ci fanno sudare dappertutto, che ci stancano,
ci snervano, ci frantumano dentro. Crolliamo poco alla volta, come le torri
gemelle in un video a rallentatore.
In
pausa pranzo tiriamo un panino dalla borsa. A volte ce l’ha preparato nostra
moglie\nostro marito; a volte ce lo siamo comprati da un salumiere all’angolo
della strada, che ormai ci fa un prezzo buono e ci mette una fetta di
prosciutto in più, strizzandoci l’occhio.
Continuiamo
a lavorare nella scia della flebile forza delle prime ore: in realtà siamo già
vessati dalla vita che resteremmo volentieri nelle lenzuola del mattino, con
gli aliti sporchi di febbre.
Andiamo
via da lavoro con dentro il terrore di pensare: forse domani qui non ci ritorno. Per la paura di essere fatti
fuori, di essere licenziati, con la scusa di un ritardo, di un taglio al
personale, di “modifiche del sistema.” E ci faranno mobbing, che così abbiamo sentito pronunciare a quello della TV,
finché non ci arrenderemo, e saremo come piante senza terra. Eppure di notte,
al riparo dei nostri cuscini, sogniamo un’altra vita, come se questa debba
essere solo un passaggio, prima della fortuna di un posto fisso, remunerativo,
appagante, ciò che racconteremo ai nostri figli, ormai adolescenti sorseggiando
champagne in una casa al mare sempre diversa, con al polso un orologio costoso.
I
nostri figli fuori da scuola hanno la faccia sporca di colore e il grembiule
spiegazzato, è stato sempre il figlio dell’avvocatessa, quello stronzo, che c’ha
già il telefonino e i soldi in tasca. Per colpa sua, la più grande, quella che
va alle medie, lo scorso Natale ha chiesto di ricevere un cellulare, ma ciò che
potremo darle è al massimo il nostro, mentre noi ne prenderemo uno di seconda
mano, da un negozio orientale in periferia.
Il
ritorno a casa è pieno delle loro cose da dirci, il momento più vissuto
della giornata: loro vivono, e lo fanno come nei sogni. Pieni di storie e di forme da raccontare. Il più piccolo ha ricevuto un bel voto in matematica,
-
farà l’ingegnere, pensi, tutto
soddisfatto.
- Chissà se potrò pagargli l’università.
E
con questa frase negli occhi guardi dal finestrino, per non pensare.
La
cena è esigua, ma buona. Ha il sapore dell’amore, della famiglia che collabora –
tu prepari la carne che io lavo i piatti – cose così.
Guardi
la persona che hai sposato e la vedi stanca, le vorresti regalare una vacanza,
un week end a Parigi, lontano dai bambini, a vedere il Louvre, un vostro sogno
del Liceo. Che forse non saprete tutto sui quadri nelle sale, ma vi sentirete
belli, lì in mezzo a loro.
La
televisione racconta storie simili alla vostra, ma mai la vostra. C’è un
signore che vince un milione di euro, faceva lo spazzino. Ora quella strada non
avrà più il suo odore. E lui con i soldi si pagherà i debiti, e se ne andrà
altrove.
Già,
perché è questo che facciamo.
Andare
via.
Come
se non fosse solo il momento, ma anche il posto a essere sbagliato.
A
noi, inadatto.
Non
nostro.
La
sera è arrivata, i figli chiudono i quaderni dei compiti, noi sistemiamo già
tutto negli zaini. Mentre non ci vedono vorremmo dare un bacio al nostro
compagno, ma ci sentiamo troppo vecchi. Con troppo vivere addosso.
Erriamo
– un verbo solo che con noi vuol dire entrambe le cose: andiamo avanti,
sbagliando.
Alla
luce della pizzeria oltre la strada e del lampione poco funzionante dell’angolo,
andiamo a dormire, raccogliendo il pigiama da terra, sgusciando come lumache stanche fuori dai gusci. Siamo
molli, con la vita che ci preme nelle ossa. Ci scuciamo di dosso le nostre vite
e ci fermiamo in un letto, immobili, come feti senza placenta.
Vorremmo
abortire la vita, completamente, e questo desiderio ci fa sentire cattivi. Poi
ci giriamo a guardare dall’altra parte, nella foto sul comodino c’è tutta la
famiglia, nel cassetto c’è quella poesia che abbiamo scritto da ragazzini,
quando abbiamo letto Pavese, nell’impeto di sentirci poeti, c’è l’abat-jour che abbiamo scelto insieme, quando ci siamo sposati, in quel negozio carissimo della
provincia, una luce che bagna timida le pareti della stanza – e siamo noi.
E allora dite:
Fanculo – ad alta voce, che l’altro vi sente, e si gira a
guardarvi, con gli occhi mangiati dal sonno. Che se tutto sta franando, se
lavorate per pochi euro, se ci sono persone che al governo fingono di risolvere
la situazione e invece si assicurano una pensione a vita, che se vi sentite
dimenticati, in fin dei conti siete questo: vivi.
Insieme.
Tutti.
Una
famiglia.
Gli
amici che vi aspettano, vi tengono calda la pizza dopo la partita.
I
genitori che strappano la pensione per la rata della vostra macchina.
Siete
vivi.
E
non c’è cosa più umana.
Va
bene così, pensate.
E rimanete.
"Siete vivi.
RispondiEliminaE non c’è cosa più umana.
Va bene così, pensate.
E rimanete."
posto che mi piace ogni parte, ogni immagine, così vera che fa male, così vera che commuove. la conclusione è quella che preferisco.
Rimanere.
La vita è fatta per gente coraggiosa. e la scelta più difficile e voltarsi incontro ad un altro viso e condividere questa scelta.
Ottimo pezzo.
Uno spaccato di vita che riflette, ahimè, la situazione attuale. La ricalca fedelmente anche se, in qualche caso, qualcuno non riesce a "restare". Il tuo racconto, però, lascia quello spiraglio di speranza da cui si dovrebbe trarre una spinta per andare avanti. Una bella testimonianza, la tua che invoglia a fare la cosa più difficile del mondo in ogni situazione: restare quando è difficile. Bravo!
RispondiEliminaComplimenti, complimenti davvero. Ho rivisto tante persone in questo post, non c'è niente di più vero e di più comune. :)
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