l'invenzione di un odore


“Miguel, onde ‘tas” gridano dall’antro delle scale, ma Miguel è già andato, fuggito altrove, aveva già la valigia pronta e le scarpe allacciate – io nel frattempo infilo le chiavi nella toppa, ripensando a uno sconosciuto che fugge via mentre rientro, faccio quello a cui sono avvezzo, mi rintano, come una lepre autunnale in un letargo tardivo.
Porto a casa i biscotti più cari al mondo, pagati una banconota per qualcosa come duecento grammi – ma cosa c’è di più futile del cibo da colazione, della prima cosa che ti riempie lo stomaco al mattino se non una scatola di krumiri importati da chissà dove e finiti in un negozio bio del centro?
Intanto Miguel è arrivato sino alla stazione, si gira e crede che non lo cerchino più. Si ferma finalmente per fare il punto della situazione, per farsi egli stesso punto e poi a capo, per farsi capo della sua spedizione in solitaria, per la prima volta che abbandona la sua famiglia e che crede di lasciare per sempre. Si perde tra i turisti fermi a fotografare l’ingresso della stazione, forse finisce in qualche scatto, questo non lo sa, non lo nota, nonostante il freddo gli passi attraverso i lembi dei vestiti vecchi che ha indossato. Ecco cos’ha dimenticato: un ricambio.
Nella mia stanza è da un mese che mi affligge un odore. Mi sveglio nel cuore della notte e mi assale questa insana voglia di scoprire da dove viene un odore specifico, che non è un cattivo, ma neanche buono, è come qualcosa di nascosto che appare in quattro mura chiuse. Ho pensato che fossero i libri, forse troppo vecchi, presi – la maggiorparte – dai mercatini delle piazze, poi ho ipotizzato che fossero i vestiti, ho lavato tutto ancora e ancora, ma continuo a svegliarmi alle tre e un quarto con questa febbre di pescare il principio dell’odore. Al mattino tutto scompare, ma il sonno no. Quello rimane a sgualcire la faccia, a slabbrare i pensieri notturni che si fondono con la realtà e non ci capisco più niente. Ho sognato mio nonno che su una spiaggia con un muretto bianco mi insegnava a pescare, a togliere la morte dalla vita in acqua.
Miguel aspetta il treno, la valigia tra le gambe, in piedi. Non è più così convinto come prima, di cosa farà, della sua disfatta ormai dichiarata. Si saranno accorti della sua scomparsa, della stanza lasciata vuota, occultata, dei vinili spariti, delle luci spente. Ha il telefono carico, le cuffie nelle orecchie, ma non ascolta niente. Con le mani nelle tasche si spinge a cercare qualcosa, vorrebbe finirci tutto all’interno come in un lago e poi risalire, chissà dove, nel buio.
Copro il segreto dell’odore – che sento solo io, ho chiesto ad altre persone ed è per loro impercettibile, bisogna capire se sia la generale educazione nel dire “la tua stanza ha un problema”, oppure se realmente il mio senso dell’olfatto ha dimensioni oniriche. Copro il segreto dell’odore, dicevo, con altri odori – candele, incensi, infusi, carta profumata infilata nei cassetti. Va’ da sé che la mia stanza si permea di pelle di puttana, profuma troppo in modo stucchevole che quando ci entro, anzi, prima di entrarci, mi sale una nausea interiore che non riesco a scacciare via.
Miguel si siede nel treno e aspetta. Il momento esatto in cui dalle rotaie il treno si staccherà e camminerà altrove, lontano. Immagina avventure, una roba fantastica che tiene inscatolata nella mente. Nella realtà il treno lo sbatterà fuori alle 3 del mattino in una città nera che non conosce e quello che capirà è che si ritrova solo, adesso, senza nessuno, senza appigli, a fluttuare in un destino instabile e immaturo. Chiude gli occhi e pensa, al treno che corre all’indietro, all’ingresso della stazione, si infila nei suoi passi al contrario per tornare, risale le scale gradino dopo gradino fino a rientrare come chiave nella toppa nella stanza e chiudersi lì, con più paura addosso di prima. Funziona.
Io nel frattempo ho cenato, ho lavato le stoviglie, ho scelto il film per il cinema di domani in solitaria. Fuori fa freddo e il letto è un elefante e i lembi delle lenzuola sono zanne. Le pareti sono ombre di candele, il pavimento ha impronte di piedi umidi. La tazza di tè per terra, ai limiti del tavolo. Ecco da dove cazzo deriva quell’odore. Cerco di fare i passi all’indietro, per inscenare io che mi dimentico la tazza per terra, per non farlo. Chiudo gli occhi, tento di andare con la vita al contrario, uscire di casa, riscendere la rampa di scale, guardare la lampadina ciondolare nel buio elettrico dell’androne. Niente da fare, non funziona. Con me, mai niente funziona.

illustrazione di Giordano Poloni

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